Mi tocca

Il Contest cucina, sta progredendo.

Noi due sfidanti stiamo affilando i coltelli, non mancano i colpi bassi (tipo lei che si fa portare la materia prima dal suo capo, direttamente dalla Calabria).

La giuria è stata definita, gli ospiti -che assaggeranno comunque i nostri piatti- sono stati puntigliosamente selezionati.

Alla sfida, una giurata, ha aggiunto una difficoltà: entrambe le sfidanti devono sottostare ad un budget fisso e uguale (con presentazione dello scontrino fiscale a dimostrazione della nostra regolarità).

E fin qua tutto occhei. Il problema mi si è posto quando è stato specificato che nel monte spesa, deve rientrarci pure il beveraggio.

Ora, o accompagno il mio piatto con bottiglia d’acqua, comprata al Prix, perché se mi metto a prendere il vino, dovrò presentarmi alla gara con un piatto di riso in bianco, bollito, guarnito di giro olio (di semi, che l’extra oliva mi fa sforare il budget).

Fa nulla, qualcosa mi invento, coi 10 € che ho a disposizione.

Mi do già per perdente, lo so: perché di fondo sta cosa la faccio solo per il cazzeggio che questa giornata mi porterà. Tutto qua. A me del cibo, interessa fino a un certo punto. Pollice sù per la compagnia e per bere qualcosa assieme.

Tornando a cose più serie. Mi va un po’ stretta la vita, eppure cascasse il mondo, la mattina parto sempre con l’anima cazzara, sorriso in faccia, per arrivare alla sera, smunta e dire “anche oggi ce l’ho fatta”.

Perché dovrà arrivare quel giorno, che c’arrivo col sorriso serale.

Se potessi esprimere un desiderio, vorrei che domani fosse già il 7 gennaio.

nata

Noia da cucina

Le amicizie non le trovi, sono loro che trovano te. Sta a te (a noi), poi, scremare, scegliere, censire o osannare.

Uno sport che pratico per diletto, conoscere gente, senza alcun distintivo amichevole, ma per il gusto mio di.

Quindi stamane, mi son sentita chiedere da bipede femmina, ancora da catalogare (ma credo che mai finirà nel mio listino delle amicizie), come e se cucino.

Diciamo che sopravvivo, ancora non son morta, ancora non ho dato fuoco a a casa per una padella dimenticata, ovvero non ho ancora avvelenato persone.

Ma so compiere dispetti, che non son pasticci, ma veri piani di sabotaggio di piatti, quando mi trovo a dover dividere la tavola con persone che non mi vanno a genio.

Non amo particolarmente i pranzi o le cene, dove il convivio prevede un numero superiore di quattro persone. Mi crea ansia di prestazione, legata al purissimo fatto che prima di mettermi a cucinare, io debba (dovrei) fare la spesa.

Andare al supermercato, prendere il cestino (il carrello lo aborro, mi sa di sport faticoso), allungare la mano sugli scaffali, prendere la merce, riporla nel cestino, camminare senza una bussola, nel labirinto dei vari prodotti, è una cosa che mi sfianca, la testa si prende un periodo sabbatico che dura da quando entro al supermercato, fino a quando ne esco.

So che il problema si potrebbe risolvere semplicemente, con la fantomatica “lista della spesa”. Ma con me non funziona. La perdo, la dimentico, ovvero nei casi più rosei, la tengo, stropicciata in mano, guardandola il meno possibile, perché il solo fatto di leggere sto pezzo di carta, equivarrebbe, per me, a leggere la notifica d’un verbale.

M’è stato suggerito che l’unica mia possibile soluzione sarebbe la spesa “on line”. Valuterò.

Nel frattempo, ho lasciato alla bipede femmina di stamane, la mia ricetta per preparare le linguine con cozze (fresche e fatte aprire in padella a parte con poca cipolla, un po’ di vino bianco secco, prezzemolo qb, pepe qb), “spinte” un po’ da tocchetti di melanzana.

E niente, se c’è pesce da mangiare, svendo me stessa al primo mercato.

 

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Tempo fa

Sto seduta in una saletta d’aspetto, entra un signore, né giovane né vecchio, né brutto né bello (diciamo che l’occhio mio curioso s’è spento) ..

lui – “..freschino oggi vero?”

io – ” .. in sto periodo altro non può essere”

lui -“..fa nulla, che si è felici, il resto non conta”

Ecco poteva toccare tutti gli argomenti che m’avrebbe lasciata indifferente, ma sulla felicità ..

lui -“..ma lo sa quando si capisce se si è felici o no?”

io-“..onestamente non lo so, penso dopo, che è esaurita”

lui-“c’è quasi, ma per capire se lei è felice deve andare a ritroso con l’immaginazione”

Lo guardo, sto abbandonando la mia indifferenza e comincio a seguire il suo discorso.

lui-“ecco il punto è questo per capire se lei è felice: immagini ora, con un grande sforzo di fantasia, il momento del suo funerale; immagini la cerimonia, quante persone vi partecipano, se c’è commozione sincera o pura curiosità attorno alla sua bara .. quanta ce n’è?”

io-“..sinceramente non riesco a pensarci”

lui-“faccia uno sforzo. Ora un ulteriore passo indietro e immagini i giorni precedenti, cosa starebbe facendo, dove sarebbe e valuti  se prova soddisfazione in quello che fa o se sente pensieri negativi”

io-“le ripeto, non mi riesce di pensarci”

lui-“faccia un ulteriore passo indietro e provi a immaginare se stessa in un futuro non lontano, circondata da persone. Pensi non a quello che lei prova per queste persone, ma quello che sente di poter ricevere da queste persone. E’ positivo o negativo? Sta bene o sta male?”

io-“sinceramente non sono in grado di risponderle”

lui-“non deve necessariamente rispondere, ma solo sentire quello che prova. Ora con lo stato d’animo che sente ritorni al momento in cui immagina il suo funerale: sarebbe liberatorio oppure no? Sarebbe una grave perdita? Sarebbe un’occasione sprecata?”

io-“scusi, ma che centra tutto sto discorso con la felicità?”

Il dialogo è andato avanti per altri pochi minuti che poi, finalmente, s’è aperta la porta della persona con cui avevo appuntamento e m’ha dato modo di interrompere il tutto.

Ora io non so se quello che m’ha cianciato il signore suddetto abbia un senso oppure no, fatto sta che secondo me la felicità la creo ogni giorno, almeno tento. Cerco di insaporire la mia vita giorno per giorno, consapevole che le mazzate non me le risparmia comunque nessuno, ma pronta a prendere quello che mi fa sentire viva. E lo difendo coi denti.

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In panchina

Non si deve provar vergogna di voler stare in panchina, per un po’.

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Questa nella foto, ai più dirà nulla, ma non è un problema. Conta l’effetto che ha su me.

E’ il punto di ritorno. Dove i problemi e i pensieri non trovano spazio.

Lì, proprio sopra a quella panchina, s’è seduto, con me, il Brad Pritt de’ noartri.

18 novembre ore 7.40 circa

IO – ” Ma a me, chi ci pensa?”

BRAD – “Ci penso io”.

3 fottutissime semplici parole, che seppur non ti facciano sparire i pensieri giornalieri, seppur non cancellino gli impegni noiosi, fanno sentire meno pesante il carico (personale e non) che grava sulle spalle.

18 novembre ore 9.46 circa

conosco per puro caso un ingegnere di Cuneo, in trasferta lavorativa nella mia cara terra.

Si parla di lavoro, ci si impiega giusto due minuti a liquidare l’argomento. E non va bene, perché non puoi a inizio giornata lavorativa essere già esausto del tuo lavoro, solo nel parlarne.

Ecco, esausta. Mi ci sento tutta. E seppure  da giorni dentro me sento quel tremolio, fuori no, non posso.

Perché sono lavoratrice, donna, mamma, che tenta di acciuffare ogni giorno tutti i minuti possibili per farle le cose.

Ieri sera, rientrata tardi dal lavoro, ho messo in croce una cena, per me e mio figlio: il pargolo m’ha guardato con sguardo critico, evidentemente manco li avevo sfiorati i suoi standard culinari. L’ho guardato, allungando una mano a spettinargli i capelli, mettendo un sorriso puro di cuore dicendogli “abbiamo la felicità di volerci bene”.

A 16 anni circa, non le afferri queste parole. Afferri la forchetta e cominci a mangiare. E fai bene, avrai tempo nella vita a tentare di esorcizzare fatica-ansia-tristezza-affanni appigliandoti a parole poetiche.